Era il settembre del 2010. In piazza c’era la Festa delle Barricate, nella sede della RAF, la Rete Antifascista, una ragazza appena diciottenne viene ripetutamente violentata da più uomini.
Lei è quasi priva di coscienza. Ha bevuto qualcosa da un bicchiere. La mattina dopo si sveglia sola e nuda nella sede vuota. Si riveste, va in stazione, torna a casa.
Negli anni successivi le viene affibbiato un nomignolo. La chiamano fumogeno. Ci vorranno cinque anni perché “Claudia” capisca il perché.
Nel corso di un indagine su una bomba carta a Casa Pound i carabinieri effettuano numerose perquisizioni. Nel cellulare di un esponente dell’ormai disciolta RAF trovano un video. Il video dello stupro di gruppo di quella lontana notte di settembre.
Il video viene mostrato a Claudia. Sola, in una caserma dei carabinieri, Claudia vede un video, dove lei è oggetto inanimato. Quel video in quei lunghi cinque anni lo avevano visto in tanti a Parma.
Nessuno ha riconosciuto pubblicamente la violenza consumata sul corpo di Claudia nella sede della Raf.
Parte l’inchiesta, scattano gli arresti. In tre, Concari, Cavalca e Pucci sono accusati di stupro di gruppo, altri vengono inquisiti per favoreggiamento.
Vari settori di movimento a Parma assumono un atteggiamento omertoso e “prudente”. Molti puntano il dito su Claudia, accusata di aver fatto i nomi dei suoi stupratori. Claudia viene cacciata da molti luoghi di movimento. Un’appestata, un’infame. La violenza di quella notte la investe in altra forma.
In tribunale, come spesso accade, sul banco degli imputati ci finisce lei. La difesa dei tre uomini accusati di stupro punta a screditarla, con i modi usuali in certi processi. Claudia è una facile, una che va con tutti, una prostituta. Le sue scelte libere diventano la leva sulla quale costruire una tesi difensiva, che non riconosce dignità alle donne stuprate, che abbiano una vita sessualmente libera.
Il nodo è il consenso. Ma non in tribunale.
Claudia è sola, va al processo con l’avvocato d’ufficio.
Questa vicenda era destinata a venire dimenticata presto.
Questa volta capita qualcosa. La strada della libertà delle donne non è stata fatta invano. Claudia incontra compagne e compagni che ascoltano la sua storia e la raccontano in un documento che spezza il velo di omertà che copriva gli stupratori.
Da allora ai processi non è più sola.
Il 9 maggio, dopo mesi di sospensione, il processo è ripreso.
Un gruppo di femministe erano al tribunale per dare sostegno a Claudia. Per la prima volta i sostenitori dei tre stupratori non si fanno vedere.
In aula si consuma un’ulteriore violenza. È il turno di uno psichiatra cui la difesa dei tre uomini ha dato l’incarico di fare una perizia. Lo psichiatra parla ed ogni parola è una pietra scagliata contro Claudia. Le sue parole si incardinano sulla lettura della relazione della psicologa che segue la ragazza: lo psichiatra non ha mai parlato con lei.
Claudia è descritta come bipolare, schizzata, una che nei guai ci entra a capofitto. Una che se l’è cercata. E chi se la cerca, si sa, diventa automaticamente stuprabile.
E, soprattutto diventa poco credibile. Chi entra nel mirino della psichiatria perde la libertà di parola, perché la voce dei “matti” è sempre stonata, fuori dal coro, aliena ed alienata, priva di ragione e di ragioni.
Lo sguardo psichiatrico trasforma chi ne viene investito in persona incapace di intendere e di volere, di capire e di decidere.
Claudia lascia l’aula. Fuori ci sono compagne e compagni pronti a raccoglierne la voce e darle eco.
Anarres ne ha parlato con una delle compagne che ha redatto il documento detto delle “4 crepe”, che per primo ha dato voce a Claudia, rompendo il silenzio intorno a questa vicenda.
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tratto da Anarres